Il pantouflage è diventato già da anni oggetto di attenzione da parte dei legislatori di gran parte dei Paesi del mondo, ma in cosa consiste e perché rappresenta un potenziale rischio per le pubbliche amministrazioni? Cosa ha spinto l’ANAC a intervenire con una lunga e articolata segnalazione diretta a Governo e Parlamento sul tema in questione?

La parola francese pantouflage (letteralmente “mettersi in pantofole”) o l’omologa espressione inglese revolving doors (“porte girevoli”) vengono in genere utilizzate nel linguaggio internazionale per indicare il passaggio di dipendenti dal settore pubblico a quello privato.

Si tratta di un fenomeno molto diffuso in un mercato del lavoro caratterizzato da estrema fluidità e mobilità che per certi versi è da valutarsi positivamente; chi ha maturato un’esperienza nel settore pubblico è spesso una risorsa assai utile ed appetibile per imprese, professioni e, in generale, mondo del lavoro privato, proprio per le conoscenze in precedenza acquisite sul campo.

Dal punto di vista delle amministrazioni pubbliche però, questa situazione può essere foriera di problemi e rischi. In primo luogo, comporta un inevitabile depauperamento di professionalità per via del passaggio al settore privato di coloro che hanno acquisito un’esperienza concreta anche grazie alla formazione mirata, per la quale sono spesso investite risorse significative.

In secondo luogo, vi è un pericolo per l’imparzialità dell’azione delle amministrazioni pubbliche, sotto due diversi e speculari profili; il burocrate, infatti, potrebbe strumentalizzare l’esercizio dei propri poteri per guadagnare la benevolenza del proprio interlocutore privato ed ottenerne di conseguenza, dopo la cessazione del rapporto con l’istituzione pubblica, una prospettiva di lavoro vantaggiosa; il privato potrebbe, dal canto suo, esercitare pressioni o condizionamenti, prospettando al dipendente pubblico una opportunità di assunzione di incarichi una volta cessato il servizio.

Soprattutto in questa accezione, il pantouflage è diventato già da anni oggetto di attenzione da parte dei legislatori di gran parte dei Paesi del mondo, con l’obiettivo di sterilizzare o comunque ridurre il rischio del danno, anche di immagine, che le istituzioni possono ricevere.

In Italia, l’istituto del pantouflage è stato regolamentato con la legge 6 novembre 2012, n. 190 (c.d. legge Severino), emanata in tema di prevenzione e repressione della corruzione. Il fenomeno è stato disciplinato per impedire che un dipendente pubblico possa sfruttare la propria posizione all’interno di un’amministrazione per ottenere un lavoro presso un’impresa o un soggetto privato verso cui ha esercitato poteri autoritativi o negoziali. Il divieto di pantouflage, limitativo della libertà negoziale del dipendente per un periodo di tempo definito dopo la cessazione del rapporto di pubblico impiego, mira ad eliminare lo stimolo di natura economica alla stipulazione di accorti fraudolenti, e costituisce così anche un presidio dell’imparzialità della pubblica amministrazione.

Sul tema è intervenuta nei giorni scorsi l’Autorità nazionale anticorruzione, che ha inviato a Governo e Parlamento una lunga e articolata segnalazione per chiedere un intervento normativo in materia di pantouflage.

Secondo Anac infatti, la legge, benché estremamente innovativa nell’intento di assicurare l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, è particolarmente scarna, con rilevanti questioni di incertezza interpretativa legate alle conseguenze derivanti dall’accertamento della violazione.

Fra le varie indicazioni dell’Autorità vi è in primo luogo l’opportunità di intervenire sulla sanzione prevista; attualmente la norma prevede, per chi assume un dipendente pubblico prima del periodo di raffreddamento, il divieto di contrattare per tre anni con le pubbliche amministrazioni e l’obbligo di restituire i compensi eventualmente percepiti e accertati riferiti a contratti conclusi con le pubbliche amministrazioni. Tale previsione appare “sproporzionata sia con riferimento alla durata prevista che in relazione all’impossibilità di graduare il periodo di interdizione”, poiché essa “finisce di fatto per paralizzare l’attività del soggetto privato”. “Una lettura della norma in questione orientata ai principi di ragionevolezza e proporzionalità, declinati sia in ambito comunitario che costituzionale – si legge nella segnalazione – rende necessaria una graduazione della sanzione interdittiva da imporre al soggetto privato che abbia violato la disposizione di cui all’art. 53, comma 16-ter, d.lgs. 165/2001 e che comunque non prescinda dalla valutazione dell’elemento psicologico” sotteso alla violazione del divieto. Dalla lettura del dettato normativo, inoltre, non si evince chiaramente se il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione valga solo nei confronti dell’amministrazione di provenienza o verso tutte le pubbliche amministrazioni.

L’Autorità ha anche invitato Governo e Parlamento a valutare l’opportunità di estendere la disciplina del pantouflage, attualmente prevista solo per i funzionari pubblici, anche ai titolari di incarichi politici e di non limitare le ipotesi alle attività lavorative subordinate o professionali, non essendo considerabili esaustive, ma di ampliare la platea degli incarichi in destinazione da vietare.

Da un punto di vista generale, l’Autorità ha rilevato la necessità di addivenire a una complessiva armonizzazione normativa e a una disciplina organica che consenta di chiarire, a livello legislativo, tutte le difficoltà che si sono manifestate con riferimento all’applicazione della disposizione in esame.